[NOTA: Non sapendo cosa scegliere come immagine di "copertina" e non volendo fare un terribile collage, alla fine ho optato per un bel dipinto di Frank Frazetta, perché omaggiare il genio artistico del buon Frank è sempre buona cosa.]
Nonostante negli anni i miei gusti musicali si siano orientati verso lidi più oscuri, complessi e progressivi (come si può constatare dalle recensioni presenti su questo blog), il mio primo amore rimane il buon vecchio power metal di matrice tedesca (lo stile Helloween, tanto per intenderci), un genere che mi fece appassionare alla musica metal e che è rimasto il mio preferito per molti anni. Anche se ora non ascolto più quei dischi con la stessa regolarità, è un genere a cui sono rimasto affezionato e a cui ho pensato di dedicare una piccola retrospettiva, creando una playlist con 25 brani (+ 2 bonus track) per narrare un po' la storia e l'evoluzione di questo genere, oltre del perché abbia scelto di inserire una particolare canzone. Nella selezione non mi sono posto regole, se non quella di evitare due brani dallo stesso album (anche perché, francamente, avrei dovuto inserire un buon 80% delle tracce dei due Keeper of the Seven Keys degli Helloween). Chiaramente ci sono esclusioni eccellenti, sia per questione di gusti (per esempio i Sonata Arctica, i Sabaton o i Powerwolf, che non ho mai digerito troppo), sia per questioni di mero spazio (per esempio gli Hammerfall o le giapponesi Lovebites), oltre che per scarsa conoscenza di alcune band, soprattutto per alcuni dei nomi nuovi della scena. Inoltre, ho preferito non mettere brani fondamentali per la nascita del genere, ma che sono venuti prima del debutto degli Helloween, quindi niente "Fast as a Shark" degli Accept, giusto per capirci.
Ho creato quindi una playlist dedicata su Spotify, con i brani in ordine cronologico, che potete ascoltare sia interagendo con i player integrato qui sopra che cliccando su questo Link. Per chi non disponesse di un account con la piattaforma musicale, ho provveduto a rendere cliccabili i titoli delle canzoni presenti nella retrospettiva in modo che siano collegati direttamente al pezzo su YouTube.Non si poteva non partire con gli album simbolo di tutto il genere, ovvero i Keeper of the Seven Keys degli Helloween. Dopo un buon esordio, per certi versi ancora grezzo e acerbo, ma dove già si intuivano grandi potenzialità, la band tedesca con l'arrivo del fenomenale cantante Michael Kiske trova la tempesta perfetta: il songwriting si fa calibratissimo e vario, le melodie immediate e accattivanti e non c'è un vero e proprio brano sottotono. Insomma, due capolavori entrati di diritto nella storia della musica metal. Come brano simbolo di queste due pietre miliari ho però preferito girare alla larga dalle tracce più universalmente note ("I Want Out", "Eagle Fly Free", "Future World" e "Dr. Stein" ) oltre che dalle due ottime suite, optando per la leggermente meno nota "March of Time", una canzone che ho sempre adorato sia per le melodie, che per lo splendido (e giusto un pelino ingenuo) testo. Menzione d'onore per la memorabile uscita dagli assoli prima del ritornello finale.
Dopo l'uscita dei due Keeper of the Seven Keys, gli Helloween parevano ormai proiettati nell'olimpo della musica metal, con una popolarità in continua crescita e un contratto con una major. Incredibilmente tutto precipitò molto velocemente quando esplosero i conflitti tra i due chitarristi della band, il fondatore Kai Hansen e Michael Weikath (pare per alcuni brani del primo rifiutati dal secondo), che portarono al polemico abbandono del primo: la leggenda narra che avesse anche deciso di portarsi via il nome (facendo di fatto saltare il contratto con la EMI), di cui era legittimo proprietario, ma di avere poi cambiato idea dopo essere stato pregato dal batterista e amico Ingo Switchenberg.
Comunque sia, il buon Kai non si diede per vinto e creò prima un progetto solista a suo nome reclutando il talentuoso cantante Ralf Scheepers (un ottimo clone del metal god Rob Halford), che si trasformò presto in una vera e propria band, i Gamma Ray.
Dopo un primo e più che discreto album, Heading for Tomorrow, completamente votato all'happy metal e con brani alquanto veloci e divertenti (su tutti la delirante "Money"), la band, nel 1991, dà alle stampe il secondo disco Sigh No More ed è un un piccolo shock. Le melodie solari e divertenti scompaiono quasi del tutto e il sound si fa più oscuro e nervoso, il songwriting più complesso e progressivo (merito anche dell'ingresso del talentuoso batterista Uli Kusch, che poi sarebbe diventato un pilastro fondamentale per la rinascita dei "rivali" Helloween) per un lavoro sicuramente molto peculiare, ma che, sul sottoscritto, ha sempre esercitato un certo fascino. "The Spirit", la traccia scelta per questa playlist, è un buon manifesto di come suona questo album, con le sue ritmiche nervose e le strofe basate su un mood abbastanza oscuro che si contrappone nettamente alle melodie del ritornello ottimamente interpretato da Ralf Scheepers.
Comunque sia, il buon Kai non si diede per vinto e creò prima un progetto solista a suo nome reclutando il talentuoso cantante Ralf Scheepers (un ottimo clone del metal god Rob Halford), che si trasformò presto in una vera e propria band, i Gamma Ray.
Dopo un primo e più che discreto album, Heading for Tomorrow, completamente votato all'happy metal e con brani alquanto veloci e divertenti (su tutti la delirante "Money"), la band, nel 1991, dà alle stampe il secondo disco Sigh No More ed è un un piccolo shock. Le melodie solari e divertenti scompaiono quasi del tutto e il sound si fa più oscuro e nervoso, il songwriting più complesso e progressivo (merito anche dell'ingresso del talentuoso batterista Uli Kusch, che poi sarebbe diventato un pilastro fondamentale per la rinascita dei "rivali" Helloween) per un lavoro sicuramente molto peculiare, ma che, sul sottoscritto, ha sempre esercitato un certo fascino. "The Spirit", la traccia scelta per questa playlist, è un buon manifesto di come suona questo album, con le sue ritmiche nervose e le strofe basate su un mood abbastanza oscuro che si contrappone nettamente alle melodie del ritornello ottimamente interpretato da Ralf Scheepers.
Nonostante l'indubbia influenza che il sound di Walls of Jericho degli Helloween ha avuto sui primi due lavori dei Blind Guardian, le due band hanno in realtà avuto due carriere parallele e un'evoluzione molto differente, pur mantenendo caratteristiche comuni. Il sound dei Blind Guardian è infatti votato molto più ad atmosfere epiche, con un sound molto più ricco e stratificato in cui hanno avuto sempre più rilevanza i cori epici, fino a diventare il marchio di fabbrica della formazione tedesca, insieme al riconoscibilissimo suono delle chitarre. Se già Tales from the Twilight World mostrava una netta impennata nella qualità, con Somewhere Far Beyond del 1991 i Blind Guardian sfornano il primo di tre capolavori consecutivi, dove il songwriting fi sa sempre più coeso e personale e le canzoni ricchissime di elementi e variazioni, pur rimanendo sempre immediatissime. Come simbolo di questo leggendario album ho scelto la title track, in realtà spesso assente dalle scalette live della formazione, ma che ho sempre adorato per il mood quasi drammatico delle strofe, per il ritornello potente e memorabile e per un finale davvero esaltante; peccato solo per l'inutile (e un po' pacchiano) intermezzo celtico che pare davvero un po' appiccicato a forza al brano.
Dopo l'ottimo Insanity and Genius del 1993, è già tempo di terremoti in casa Gamma Ray: Ralf Scheepers è infatti impegnato con le audizioni per diventare il sostituto di Rob Halford in casa Judas Priest [purtroppo per lui, gli sarà preferito all'ultimo momento Tim "Ripper" Owens] e Kai Hansen è costretto a silurarlo per potere registrare il quarto album, prendendo la decisione sorprendente di tornare dietro al microfono dieci anni dopo Walls of Jericho degli Helloween (ricordiamo che il chitarrista decise di smettere di cantare a causa di alcuni problemi alle corde vocali). Dopo 3 dischi piuttosto eterogenei e personali che evolvevano le sonorità che lui stesso aveva contribuito a plasmare, Kai decide di tornare a un sound più classico con un bel concept caratterizzato da atmosfere piuttosto epiche.
Ne esce un album a tratti prevedibile, ma comunque di buon valore, in cui, a svettare, è l'ottima title track con il suo incedere marziale e il suo memorabile ritornello dove, a sorpresa, fa capolino nei controcori Michael Kiske, anch'egli nel frattempo cacciato malamente dagli Helloween; un riavvicinamento che è, a tutti gli effetti, il primo passo di un lunghissimo percorso che porterà a una delle reunion più impossibili e impronosticabili della storia del metal (ne parleremo tra qualche paragrafo, ovviamente).
Ne esce un album a tratti prevedibile, ma comunque di buon valore, in cui, a svettare, è l'ottima title track con il suo incedere marziale e il suo memorabile ritornello dove, a sorpresa, fa capolino nei controcori Michael Kiske, anch'egli nel frattempo cacciato malamente dagli Helloween; un riavvicinamento che è, a tutti gli effetti, il primo passo di un lunghissimo percorso che porterà a una delle reunion più impossibili e impronosticabili della storia del metal (ne parleremo tra qualche paragrafo, ovviamente).
Se già si intuivano alcuni segnali di un ritorno di interesse per la musica power metal, quando si affacciarono sul mercato i brasiliani Angra, con il bene placito di due pezzi da novanta come il produttore tedesco Limb Schnoor e il solito Kai Hansen, fu chiaro che queste sonorità avessero ancora un ottimo potenziale commerciale. Il debutto della band brasiliana, Angels Cry, presenta un sound indubbiamente molto debitore da quello degli Helloween dei Keepers, con un cantante dotato di straordinaria estensione (nonché direttore d'orchestra diplomato al conservatorio) come il compianto Andre Matos e due chitarristi dotati di grande tecnica e feeling come Kiko Loureiro e Rafael Bittencourt.
Ma è con il successivo Holy Land che gli Angra sfornano il loro gioiello, mantenendo il power metal come base su cui innestare venature più progressive e sinfoniche, con qualche riuscito inserto etnico. Un album dalla creatività strabordante e senza punti deboli, che consacra immediatamente la formazione brasiliana come astro nascente della scena. La mia canzone preferita rimane comunque l'opener Nothing to Say, tirata, tecnica e maledettamente melodica, con uno splendido ritornello.
Ma è con il successivo Holy Land che gli Angra sfornano il loro gioiello, mantenendo il power metal come base su cui innestare venature più progressive e sinfoniche, con qualche riuscito inserto etnico. Un album dalla creatività strabordante e senza punti deboli, che consacra immediatamente la formazione brasiliana come astro nascente della scena. La mia canzone preferita rimane comunque l'opener Nothing to Say, tirata, tecnica e maledettamente melodica, con uno splendido ritornello.
In seguito al ritrovato successo di Helloween e Gamma Ray, e al brillantissimo esordio degli Angra, nella seconda metà degli anni novanta cominciano a spuntare sempre più band che riprendono gli stilemi del sound dei Keepers per riproporli in maniera più o meno personale. Tra queste meritano sicuramente una menzione i finnici Stratovarius, in realtà attivi già da molto tempo, ma che, con l'arrivo del cantante Timo Kotipelto (un discreto epigono del solito Kiske), spostarono le coordinate sonore da un hard rock settantiano a un power metal caratterizzato da sonorità neoclassiche e da assoli di chitarra (opera di Timo Tolkki) e di tastiera iperveloci (opera di Jens Johansson).
In pratica l'unione perfetta del sound helloweeniano agli assoli di Yngwie Malmsteen. Con l'arrivo del veterano Jörg Michael alla batteria (che in realtà ci mette giusto precisione e potenza, lasciando da parte varietà e tecnica) tutto è pronto per una e vera esplosione di popolarità, che arriva puntuale con Episode del 1996 e che trova conferma in Visions del 1997, forse il lavoro più coeso e riuscito del gruppo finlandese. Ho scelto Black Diamond perché è uno dei brani più famosi e caratteristici degli Stratovarius, un buon compendio di quello che è il loro sound. Per la cronaca, nonostante un'ottima popolarità, la band finirà per implodere dopo qualche disco per colpa dei problemi mentali (mal curati) del chitarrista e leader Timo Tolkki, che portarono infine al suo abbandono; il gruppo è ancora attivo e con un buon seguito di culto, anche se lontano dai fasti della seconda metà degli anni Novanta.
In pratica l'unione perfetta del sound helloweeniano agli assoli di Yngwie Malmsteen. Con l'arrivo del veterano Jörg Michael alla batteria (che in realtà ci mette giusto precisione e potenza, lasciando da parte varietà e tecnica) tutto è pronto per una e vera esplosione di popolarità, che arriva puntuale con Episode del 1996 e che trova conferma in Visions del 1997, forse il lavoro più coeso e riuscito del gruppo finlandese. Ho scelto Black Diamond perché è uno dei brani più famosi e caratteristici degli Stratovarius, un buon compendio di quello che è il loro sound. Per la cronaca, nonostante un'ottima popolarità, la band finirà per implodere dopo qualche disco per colpa dei problemi mentali (mal curati) del chitarrista e leader Timo Tolkki, che portarono infine al suo abbandono; il gruppo è ancora attivo e con un buon seguito di culto, anche se lontano dai fasti della seconda metà degli anni Novanta.
Ho pensato a lungo se inserire in questa retrospettiva anche i Rage di Peavy Wagner, non per demeriti (anzi, la formazione tedesca è un esempio di qualità, solidità e coerenza), ma più che altro perché non li considero una vera e propria band power metal. Il loro percorso è parallelo a quello degli Helloween (hanno più o meno debuttato contemporaneamente) e il sound più vicino a un classico metallone priestiano che allo stile di Kai Hansen e Michael Weikath. Detto questo, non c'è dubbio che in più di un'occasione i Rage si siano avvicinati alle tipiche sonorità power metal, in particolare in questa "Turn the Page", uno dei brani migliori di quel gioiellino che è XIII, un lavoro che segna una delle prime collaborazioni della band con la Lingua Mortis Orchestra e dove gli strumenti classici trovano la loro dimensione perfetta come parte integrante delle canzoni e non come mero accompagnamento. In particolare, su questa "Turn the Page" gli strumenti classici donano maggiore profondità e solennità a un brano semplice, ma efficace.
Potrà sembrare strano, ma 26 anni fa la presenza di formazioni italiane nella scena metal internazionale era praticamente inesistente, con band come Sadist ed Eldritch che, tra mille difficoltà e con una volontà ferrea, portavano avanti la torcia. Così, quando arrivò la notizia che la storica etichetta americana Metal Blade aveva messo sotto contratto gli italiani Labyrinth, fu un vero punto di svolta. Un'occasione che la formazione toscana colse appieno con Return to Heaven Denied (dove si presentava con divertenti nomi d'arte temendo che la provenienza italiana potesse nuocere a livello internazionale). Merito di ottime doti tecniche (soprattutto il chitarrista Olaf Thorsen e il bravissimo cantante Roberto Tiranti), di un songwriting diretto e senza troppi fronzoli, focalizzato sulla forma canzone e di un sound che, al classico sound power metal teutonico, aggiungeva tastiere ispirate dalla scena dance di quegli anni, fortunatamente mai troppo invasive. Return to Heaven Denied, al netto di qualche ingenuità (il testo di "Thunder" fa francamente un po' sorridere) è così un disco di ottima fattura, che suona ancora fresco a distanza di oltre 25 anni. Ho scelto "State of Grace" sia perché è forse la traccia che mette in mostra al meglio le grandi doti di Roberto Tiranti, sia perché è legata a bei ricordi: fu infatti questa la primissima canzone che la band suonò nel soundcheck di quella che è l'edizione migliore di sempre del Gods of Metal, quella dove tutto il gotha del power metal (Helloween, Gamma Ray e Blind Guardian) era presente, per non parlare dei Black Sabbath con Ozzy e dei Pantera.
Avevamo lasciato gli Helloween dopo il doloroso split con il fondatore Kai Hansen (sostituito dal validissimo Roland Grapow, comunque): purtroppo i sogni di gloria si infransero presto per colpa di due album controversi, Pink Bubbles Go Ape (un tentativo non troppo riuscito di rendere il proprio stile più pop) e Chameleon (un minestrone di brani fin troppo eterogenei). Il risultato fu la perdita del contratto con la EMI e il siluramento di Michael Kiske prima e del batterista Ingo Switchenberg poi per la sua dipendenza dalle droghe (il povero Ingo venne purtroppo trovato pochi mesi più tardi senza vita per un overdose). Michael Weikath fu però bravo a ripartire praticamente da zero, reclutando l'ottimo batterista Uli Kusch (che aveva suonato per i "rivali" Gamma Ray su Sigh No More) e l'eccellente cantante Andi Deris. La scelta di Andi si rivelo controversa in quanto il vocalist aveva uno stile estremamente differente da quello di Kiske, con sicuramente meno estensione, bilanciata però da tanta tecnica, varietà e un'innegabile carisma.
Questa sorta di Helloween MKII rimise subito a posto le cose con due album come Master of the Rings e Time of the Oath, riportando immediatamente le coordinate sonore sul loro tipico stile, ma senza sedersi troppo sugli allori e anzi iniziando un percorso di interessante evoluzione sonora. Evoluzione che ha il suo picco nello splendido disco Better Than Raw, dove, accanto a tracce più tradizionali ("Falling Higher"), trovavano spazio brani molto semplici e diretti (il singolo "I Can") e canzoni più pesanti e sperimentali (l'opener "Push"). Ma il vero gioiello del disco è "Revelation", brano di quasi 8 minuti caratterizzato da tantissime variazioni, con un Uli Kusch davvero sugli scudi e con alcuni dei riff più pesanti mai sentiti in un disco power metal, che andavano ad omaggiare il groove metal dei Pantera. Una cavalcata imprevedibile ed esaltante.
Questa sorta di Helloween MKII rimise subito a posto le cose con due album come Master of the Rings e Time of the Oath, riportando immediatamente le coordinate sonore sul loro tipico stile, ma senza sedersi troppo sugli allori e anzi iniziando un percorso di interessante evoluzione sonora. Evoluzione che ha il suo picco nello splendido disco Better Than Raw, dove, accanto a tracce più tradizionali ("Falling Higher"), trovavano spazio brani molto semplici e diretti (il singolo "I Can") e canzoni più pesanti e sperimentali (l'opener "Push"). Ma il vero gioiello del disco è "Revelation", brano di quasi 8 minuti caratterizzato da tantissime variazioni, con un Uli Kusch davvero sugli scudi e con alcuni dei riff più pesanti mai sentiti in un disco power metal, che andavano ad omaggiare il groove metal dei Pantera. Una cavalcata imprevedibile ed esaltante.
Come già detto in precedenza, i Blind Guardian hanno l'invidiabile record di avere sfornato tre capolavori uno dopo l'altro, Somewhere Far Beyond, Imaginations from the Other Side e infine il concept dedicato al Silmarillion di Tolkien (!), Nightfall in Middle Earth. Proprio da quest'ultimo, stupendo, lavoro, proviene "Mirror Mirror", forse non la canzone più raffinata partorita dai bardi tedeschi, ma un'esaltantissima cavalcata di 5 minuti caratterizzata da melodie memorabili, soprattutto nel pezzo finale dell'assolo [sfido chiunque a non canticchiarlo già dopo il primo ascolto]. Non a caso è, ancora oggi, il bis di tutti i concerti dei Blind Guardian. Una classica "Feel good song" e una delle migliori canzoni power metal mai scritte.
Prima della fondazione degli Iron Savior, il nome di Piet Sielck era poco noto, nonostante il cantante e chitarrista fosse uno dei fondatori dei Gentry insieme a Kai Hansen, band che dopo il suo abbandono avrebbe cambiato nome in Iron Fist e, infine, in Helloween. Piet per 14 anni ha intrapreso un'ottima carriera parallela come sound engineer e produttore (per esempio per il debutto dei Gamma Ray), salvo poi, nel 1996, chiedere una mano agli amici Kai Hansen e Thomen Stauch (batterista dei Blind Guardian) per tornare in campo con una nuova band, gli Iron Savior.
Da lì il buon Piet avrebbe continuato a sfornare dischi di qualità sempre discreta con grande costanza: magari non avrà mai avuto i picchi qualitativi di altre formazioni, ma è innegabile la passione, la coerenza e l'onestà intellettuale di Piet, motivo per cui ho deciso di includere una canzone degli Iron Savior nella retrospettiva. Alla fine la scelta è caduta su "Unchained", tratta dal secondo album Unification, un brano molto semplice e diretto, tutto giocato sulla contrapposizione tra le strofe più ritmate e le accelerazioni sul ritornello, molto epico e immediato. In più quella scala di poche semplici note sul ritornello ci sta maledettamente bene.
Da lì il buon Piet avrebbe continuato a sfornare dischi di qualità sempre discreta con grande costanza: magari non avrà mai avuto i picchi qualitativi di altre formazioni, ma è innegabile la passione, la coerenza e l'onestà intellettuale di Piet, motivo per cui ho deciso di includere una canzone degli Iron Savior nella retrospettiva. Alla fine la scelta è caduta su "Unchained", tratta dal secondo album Unification, un brano molto semplice e diretto, tutto giocato sulla contrapposizione tra le strofe più ritmate e le accelerazioni sul ritornello, molto epico e immediato. In più quella scala di poche semplici note sul ritornello ci sta maledettamente bene.
Quello degli Heavens Gate è un nome inspiegabilmente di nicchia, conosciuti quasi più per il fatto che nella band militasse il super produttore Sascha Paeth (attualmente membro fisso del progetto Avantasia) che per la loro musica. Eppure la band tedesca ha sfornato sempre lavori di ottima qualità di metal classico molto tecnico, con qualche spruzzata di power metal e una buona dose di ironia, raccogliendo il meritato successo solo in Giappone e rimanendo una realtà di culto nel vecchio continente. Un vero peccato, perché le qualità della formazione tedesca erano innegabili (ho sempre adorato il timbro del bravissimo cantante Thomas Rettke), il songwriting mai banale e sempre vario e il sound classico, ma sempre personale. A voler ben vedere avrei dovuto forse scegliere un brano da Planet E, probabilmente il loro miglior lavoro, ma ho sempre avuto un debole per la tirata e solare "Mastermind", tratta dal concept Menergy, che ha, di fatto, chiuso la loro carriera nel 1999. Ovviamente il consiglio è di recuperare i loro lavori (in digitale, visto che gli album non sono ristampati da anni in formato fisico), perché meritano.
Certo, alla fine hanno avuto ragione i Rhapsody, costruendosi disco dopo disco una solida reputazione e diventando una delle formazioni più conosciute della scena. Personalmente preferisco sempre ascoltare i primi lavori (quelli usciti con nome Rhapsody), più solari, istintivi, genuini e divertenti (e anche un pelino autoironici), piuttosto che quelli molto più seriosi usciti con il nome Rhapsody of Fire [parlo sempre della formazione pre-split con Turilli, Lione e Staropoli, con la band italiana che poi si è purtroppo iscritta alla lunga lista di gruppi power metal che sono in qualche modo implosi]. Ero tentato di mettere il tormentone "Emerald Sword", ma alla fine ho optato per "Holy Thunderforce", una traccia di puro happy metal caratterizzato dall'energia trascinante e che racchiude in sé tutte le caratteristiche dei primi album dei Rhapsody e in più è accompagnato da un video alquanto artigianale e divertente.
Avevamo lasciato il buon Ralf Scheepers "cornuto e mazziato": prima silurato (senza acrimonia) dai Gamma Ray in quanto impegnato con le audizioni per diventare il nuovo cantante dei Judas Priest e, in seguito, scartato all'ultimissimo dai Priest in favore di Tim Owens. Nonostante la delusione, il monolitico cantante non si è dato per vinto e, in tempi brevi, ha messo in piedi i Primal Fear insieme al bassista Mat Sinner, attivo da molti anni con la band che porta il suo nome. Il sound dei Primal Fear si ispira decisamente molto di più a quello degli immortali Judas Priest (come se la presenza di un'aquila che ricorda non poco quella di Screaming for Vengeance non bastasse a fare capire che aria tira), con qualche scampagnata nei territori più prettamente power metal. Anche per i Primal Fear valgono le stesse considerazioni fatte per gli Iron Savior: una band onesta e coerente che ha continuato a sfornare album con grande costanza (anche se con una monotonia decisamente superiore rispetto alla formazione guidata da Piet Sielck). Personalmente ascolto ancora con piacere il loro terzo disco, Nuclear Fire del 2001, in particolare la title track: semplice, diretta ed efficace, con un'ottima prestazione da parte del buon Ralf.
Quando Tobias Sammet, leader dei già lanciatissimi Edguy [della band tedesca ne parleremo un paio di paragrafi più avanti] dichiarò nel 2000 di volere realizzare la propria (power) metal opera con vari cantanti, sulla falsa riga di quanto fatto dagli Ayreon di Arjen Lucassen, furono in molti su forum e mailing list [ehm] a sghignazzare pensando "ma chi si crede di essere questo qui?". In realtà non solo la metal opera (uscita in due parti) si rivelò essere più che piacevole (al netto di qualche passaggio a vuoto dettato da una certa ingenuità), ma diede vita a un progetto che crebbe vertiginosamente includendo cantanti sempre più prestigiosi e raccogliendo una popolarità enorme, fino ad arrivare a riempire palazzetti e a fungere da headliner nei maggiori festival metal. Certo, il power metal dei primi due lavori è tornato solo sporadicamente (con il nome Avantasia sono infatti usciti lavori molto eterogenei come stile e atmosfera), ma è incredibile vedere dove sia arrivato Tobias grazie alla genuina passione e convinzione, oltre che un indubbio talento per il songwriting. A rappresentare il progetto ho scelto "Farewell", sia perché dopo tanta velocità una ballata ci sta bene, sia perché il brano è comunque memorabile nella sua semplicità, con un ritornello azzeccatissimo e un ottimo uso dei cantanti ospiti (ovvero Sharon Den Adel su una strofa e Michael Kiske negli splendidi controcori sul finale).
Anche per i Freedom Call del cantante Chris Bay vale lo stesso discorso fatto per Iron Savior e Primal Fear: anche qui siamo di fronte a una band coerente, i cui album non saranno forse ricordati tra i migliori del genere, ma che grazie all'onestà intellettuale con cui si rapportano ai propri appassionati fan, hanno trovato un loro spazio in una scena così affollata. In particolare, la musica dei Freedom Call è caratterizzata da un sound iper-melodico e solare che va a ricercare il lato più divertente e allegro del power metal, senza paura di finire in territori pacchiani. Insomma, puro happy metal (i maligni ai tempi lo definivano "Trallallà metal") che non avrà chissà quale profondità, ma che fa sempre il suo dovere di intrattenere i propri fan e regalare qualche sorriso. Missione compiuta, come si può facilmente constatare da questa "Metal Invasion", brano esagerato e divertentissimo, con tanto di tastieroni beceri.
Bentornati alla soap opera "Anche le Zucche Piangono". Riassunto delle puntate precedenti: Kai si rende conto troppo tardi del tradimento di Michael K. e, quando Michael W. lo scopre, lo caccia di casa. Nel frattempo i nuovi arrivati Uli e Roland intessono un oscuro piano criminale per impossessarsi della casa di Michael...
Scusate il piccolo inciso demenziale, ma non c'è dubbio che la storia degli Helloween sia costellata di piccoli e grandi drammi e colpi di scena (e non è certo finita qui), tra litigi, siluramenti improvvisi, riavvicinamenti inattesi e, purtroppo, anche tragedie. E, cosa ancora più incredibile, la stessa sorte è capitata a molte altre band della scena, implose proprio all'apice della popolarità. Comunque sia, avevamo lasciato gli Helloween con l'ottimo album Better Than Raw, che aveva certificato al definitiva rinascita della formazione tedesca. Il momento di tranquillità durò poco, in quanto, con il successivo album, The Dark Ride, la band, creativamente parlando, si ritrovò divisa in due: da un lato Michael Weikath ed Andi Deris che volevano tornare a uno stile più classico e dall'altro Uli Kusch e il chitarrista Roland Grapow che volevano continuare a sperimentare ibridando le classiche sonorità helloweeniane con atmosfere più nervose e oscure. Ne esce fuori un disco eterogeneo e non troppo ispirato che non soddisfa affatto Michael Weikath, che non ne fa affatto un mistero nelle interviste rilasciate.
L'ovvio finale è, purtroppo, il siluramento di Kusch e Grapow, che si rimboccano le maniche mettendo in piedi una nuova band, i Masterplan, reclutando addirittura Jørn Lande alla voce; il cantante norvegese si era costruito una più che discreta fama nella scena hard rock grazie a una grandissima tecnica e a un timbro caldissimo che ricorda chiaramente quelli di due mostri sacri come David Coverdale e Ronnie James Dio. Alla fine è proprio la sua presenza il maggior punto di interesse del disco di esordio dei Masterplan, che non brilla per l'originalità, ma che comunque si fa ascoltare più che volentieri grazie alle belle linee vocali di Jørn. Ho scelto una delle canzoni più veloci del lotto, "Spirit Never Die", in quanto mi piace la contrapposizione tra il timbro caldo di Jørn Lande e la classica doppia cassa power metal. Per la cronaca, il sodalizio durerà poco, con il cantante che lascerà la band dopo il secondo disco, seguito a breve distanza da Uli Kusch: da lì la carriera dei Masterplan, ancora attivi oggi, imboccherà un sentiero fatto di dischi poco memorabili (nonostante un fugace ritorno dello stesso Lande), purtroppo.
L'ovvio finale è, purtroppo, il siluramento di Kusch e Grapow, che si rimboccano le maniche mettendo in piedi una nuova band, i Masterplan, reclutando addirittura Jørn Lande alla voce; il cantante norvegese si era costruito una più che discreta fama nella scena hard rock grazie a una grandissima tecnica e a un timbro caldissimo che ricorda chiaramente quelli di due mostri sacri come David Coverdale e Ronnie James Dio. Alla fine è proprio la sua presenza il maggior punto di interesse del disco di esordio dei Masterplan, che non brilla per l'originalità, ma che comunque si fa ascoltare più che volentieri grazie alle belle linee vocali di Jørn. Ho scelto una delle canzoni più veloci del lotto, "Spirit Never Die", in quanto mi piace la contrapposizione tra il timbro caldo di Jørn Lande e la classica doppia cassa power metal. Per la cronaca, il sodalizio durerà poco, con il cantante che lascerà la band dopo il secondo disco, seguito a breve distanza da Uli Kusch: da lì la carriera dei Masterplan, ancora attivi oggi, imboccherà un sentiero fatto di dischi poco memorabili (nonostante un fugace ritorno dello stesso Lande), purtroppo.
Come ribadito nel paragrafo precedente, se c'è una costante in molte delle formazioni dedite al power metal di matrice tedesca è l'instabilità e la tendenza ad autodistruggersi proprio nel momento di massima popolarità. È successo agli Helloween, agli Stratovarius, ai nostrani Rhapsody e anche agli Angra. Dopo la pubblicazione di Holy Land, la popolarità della formazione brasiliana era alle stelle, tanto che il successivo Fireworks finì nelle posizioni alte delle classifiche di vendita in molti paesi (Italia compresa!). Purtroppo l'album fu una totale delusione, un disco moscio e noioso di metal classico privo delle derive progressive ed etniche (nonché della creatività) del precedente, frutto di tensioni interne che sarebbero esplose poco dopo, portando a uno split totale: da un parte il cantante Andre Matos e la sezione ritmica (che fondarono una nuova band, i deludenti Shaman) e dall'altra i due chitarristi Rafael Bittencourt e Kiko Loureiro che avrebbero tenuto il monicker Angra.
Così, reclutato il talentuoso cantante Edu Falaschi (proveniente da una cover band ufficiale degli Iron Maiden), il bravissimo batterista Aquiles Priester e il bassista Felipe Andreoli, la formazione brasiliana ha una vera e propria rinascita, sancita dall'album intitolato (appunto) Rebirth, che mostra un ritorno alle sonorità dei primi due album. Falaschi si dimostra degno erede di Matos, ma è soprattutto a livello di songwriting che le cose tornano a funzionare a dovere, nonostante una certa tendenza ad andare sul sicuro. È col successivo Temple of Shadows che però gli Angra sfornano il loro album migliore di questa seconda era, tornando a un songwriting estremamente ricco e personale e pieno di sfumature. Ho scelto l'opener "Spread Your Fire" in quanto classico barano trascinante e caratterizzato da un ritornello vincente.
Per la cronaca, la permanenza di Edu Falaschi nella band durerà giusto una decina di anni e sarà poi sostituito dall'italiano Fabio Lione, cresciuto esponenzialmente come cantante durante gli anni nei Rhapsody. Non ho inserito canzoni tratte da questa terza incarnazione della formazione brasiliana per mere questioni di spazio, perché la qualità è rimasta comunque buonissima. Consiglio soprattutto l'ascolto dell'ultimissimo Cycles of Pain, un lavoro davvero ispirato.
Così, reclutato il talentuoso cantante Edu Falaschi (proveniente da una cover band ufficiale degli Iron Maiden), il bravissimo batterista Aquiles Priester e il bassista Felipe Andreoli, la formazione brasiliana ha una vera e propria rinascita, sancita dall'album intitolato (appunto) Rebirth, che mostra un ritorno alle sonorità dei primi due album. Falaschi si dimostra degno erede di Matos, ma è soprattutto a livello di songwriting che le cose tornano a funzionare a dovere, nonostante una certa tendenza ad andare sul sicuro. È col successivo Temple of Shadows che però gli Angra sfornano il loro album migliore di questa seconda era, tornando a un songwriting estremamente ricco e personale e pieno di sfumature. Ho scelto l'opener "Spread Your Fire" in quanto classico barano trascinante e caratterizzato da un ritornello vincente.
Per la cronaca, la permanenza di Edu Falaschi nella band durerà giusto una decina di anni e sarà poi sostituito dall'italiano Fabio Lione, cresciuto esponenzialmente come cantante durante gli anni nei Rhapsody. Non ho inserito canzoni tratte da questa terza incarnazione della formazione brasiliana per mere questioni di spazio, perché la qualità è rimasta comunque buonissima. Consiglio soprattutto l'ascolto dell'ultimissimo Cycles of Pain, un lavoro davvero ispirato.
Quando spuntarono sulla scena i Dragonforce si capì subito che questi ragazzi avevano un ottimo potenziale: d'altronde il loro power metal sotto steroidi caratterizzato da ritmiche forsennate (spesso più vicine a un certo melodeath che al power vero e proprio), assoli supersonici con suoni che richiamano quelli dei videogiochi 8-bit e una discreta dose di follia non poteva non lasciare il segno. In realtà, una volta trovato uno stile distintivo, la formazione britannica guidata dal simpatico Herman Li si sarebbe purtroppo arenata nella continua (e stanca) riproposizione degli stessi stilemi, trovando una nuova dimensione solo molto tempo più tardi (ne riparleremo a breve). Detto questo, i Dragonforce hanno sempre raccolto un buon successo, oltre che numerosissimi detrattori per l'attitudine della band e per il fatto che il chitarrista Herman Li sia [anatema!] un popolare influencer su Twitch e YouTube, cosa che il metallaro 1.0 evidentemente non digerisce molto.
Comunque sia, la scelta non poteva che ricadere sul loro brano più famoso, la delirante "Through the Fire and the Flames" che è riuscita a sfondare anche grazie all'inclusione nel popolare [qualche annetto fa] videogioco Guitar Hero, dove risultava essere la canzone più difficile da eseguire in assoluto. Aldilà di tutto e della loro carriera creativamente deludente [a mio parere] "Through the Fire and the Flames" rimane una delle migliori canzoni power metal di sempre: potente, esaltante e folle.
Comunque sia, la scelta non poteva che ricadere sul loro brano più famoso, la delirante "Through the Fire and the Flames" che è riuscita a sfondare anche grazie all'inclusione nel popolare [qualche annetto fa] videogioco Guitar Hero, dove risultava essere la canzone più difficile da eseguire in assoluto. Aldilà di tutto e della loro carriera creativamente deludente [a mio parere] "Through the Fire and the Flames" rimane una delle migliori canzoni power metal di sempre: potente, esaltante e folle.
Sinceramente ho ritenuto il successo degli Edguy sempre abbastanza sorprendente, almeno agli inizi, visto che la band fondata da Tobias Sammet non aveva chissà quali tratti distintivi rispetto alla nutrita concorrenza. Una buona tecnica, un sound profondamente radicato nel canone helloweeniano e un songwriting di livello discreto: nulla di peculiare. Eppure, in questo caso, sono i piccoli particolari a fare la differenza: la genuina passione e convinzione di Tobias Sammet, un'attitudine estremamente ironica e autoironica (uno dei tratti tipici degli Helloween dei tempi d'oro che spesso viene dimenticato) e una certa varietà compositiva che permette di spaziare dalle solite sventagliate di doppia cassa a brani più solenni e sinfonici a pezzi che sembrano provenire dritti dai Twisted Sisters. In più, con la nascita e l'evoluzione del progetto Avantasia, il sound degli Edguy si è evoluto di pari passo verso lidi più teatrali e magniloquenti. Buona dimostrazione è questa ottima "Judas at the Opera", originariamente apparsa sull'EP Superheroes, che vede la partecipazione di Michael Kiske e che è una sorta di bigino di tutti gli elementi tipici degli Edguy e degli Avantasia.
E arriviamo a una scelta sicuramente controversa. Gli Avenged Sevenfold sono una delle band di metal moderno di maggior successo nella scena e, soprattutto alla luce degli ultimi lavori, non si possono certo etichettare come power metal. Eppure, dopo due dischi che proponevano il tipico metalcore dei primi anni '90, la band statunitense sorprese tutti con un album, City of Evil, che invece finiva in territori molto più vicini al metal classico (più vicino all'Europa che all'America) e all'hard rock ottantiano. Una vera e propria inversione a 180 gradi (non certo l'unica nella carriera degli A7X) che però ha portato a un lavoro francamente molto piacevole. Ad aprire il disco questa "The Beast and the Harlot", che è un pezzo innegabilmente ispirato dal power metal teutonico, con tanto di doppia cassa e ritornello melodico e che porta a casa brillantemente il risultato.
Per questa "Dead of Dawn" vale esattamente lo stesso discorso fatto un paio di paragrafi più sopra per i Masterplan: più che per la traccia in sé, ben fatta e competente, ma senza particolari guizzi, il vero valore d'interesse e nello sentire una voce evocativa e profonda come quella di Zak alle prese con uno stile con cui non si è mai cimentato. Inutile dire che la prestazione del cantante americano è comunque davvero degna di nota.
Abbiamo già parlato di Labyrinth e Rhapsody, me è innegabile che il power metal abbia poi trovato un terreno fertilissimo nel suolo italico, portando alla nascita di tantissime band interessanti. In questo caso parliamo di due formazioni caratterizzate da storie molto simili (oltre che da un mutuo rispetto), ovvero i Trick or Treat e gli Skeletoon.
Entrambe le formazioni sono nate come cover band degli Helloween, evolvendosi poi in vere e proprie band che, con instancabile energia e dedizione hanno saputo ritagliarsi uno spazio forse piccolo, ma significativo, sulla scena. In particolare è curioso che sia Trick or Treat che Skeletoon abbiano scelto la strada dei concept di stampo geek (le sigle dei cartoni animati e i Cavalieri dello Zodiaco per i primi, i Goonies e Ritorno al Futuro per i secondi) garantendosi così un seguito di culto. Per questioni di spazio ho scelto un brano degli Skeletoon, gruppo che trovo leggermente più vicino ai miei gusti, ovvero "Holding on", il pezzo che apre il loro ultimo disco The 1.21 Gigawatts Club: una classica canzone helloweeniana con tutto al posto giusto e dove si può ammirare la bravura del cantante Tomi Fooler.
Entrambe le formazioni sono nate come cover band degli Helloween, evolvendosi poi in vere e proprie band che, con instancabile energia e dedizione hanno saputo ritagliarsi uno spazio forse piccolo, ma significativo, sulla scena. In particolare è curioso che sia Trick or Treat che Skeletoon abbiano scelto la strada dei concept di stampo geek (le sigle dei cartoni animati e i Cavalieri dello Zodiaco per i primi, i Goonies e Ritorno al Futuro per i secondi) garantendosi così un seguito di culto. Per questioni di spazio ho scelto un brano degli Skeletoon, gruppo che trovo leggermente più vicino ai miei gusti, ovvero "Holding on", il pezzo che apre il loro ultimo disco The 1.21 Gigawatts Club: una classica canzone helloweeniana con tutto al posto giusto e dove si può ammirare la bravura del cantante Tomi Fooler.
Nel 2016 avviene veramente l'impensabile: dopo decenni di litigi, split e accuse, la band annuncia a sorpresa la reunion con Kai Hansen e Michael Kiske in una formazione a tre chitarre (oltre all'ovvio Michael Weikath c'è anche Sascha Gerstner, che aveva sostituito Roland Grapow dopo The Dark Ride). In realtà i primi passi c'erano già stati anni prima quando Kai e Michael W. erano tornati a parlarsi per organizzare un tour da co-headliner di Helloween e Gamma Ray nel 2007, con Kai che tornava a esibirsi dopo 20 anni con la sua vecchia band sui bis. Da qui a una vera e propria reunion che comprendesse anche Micheal Kiske però ce ne passa e invece, dopo mesi di trattative, viene annunciato un tour mondiale che, nonostante una fastidiosa laringite che ha colpito Michael Kiske nelle prime date (compresa, purtroppo, quella di Milano), si è rivelato un grande successo, grazie anche all'affiatamento francamente inaspettato della band. In particolare è noto che Andi Deris e Michael Kiske siano diventati in breve tempo grandi amici, tanto che il secondo è spesso ospite nella villa del primo a Tenerife.
Detto questo, non era affatto scontato che da questa reunion potesse nascere anche un nuovo album ed invece ecco spuntare 4 anni più tardi questo Helloween. Nonostante la grande attesa, in realtà il disco si attesta su livelli qualitativi medi, più o meno alla pari con i lavori precedenti delle Zucche, senza veri e propri guizzi, sia per quanto riguarda i brani scritti da Weikath e Deris, che per "Skyfall", la suite scritta da Kai Hansen che conclude il disco. In particolare ci si aspettava di più a livello di interazione tra le due voci e di profondità delle linee melodiche, con le tre chitarre mai sfruttate appieno. A sorpresa, la canzone più memorabile dell'album non è scritta né dai due chitarristi, né da Andi Deris, ma bensì dall' "imbucato" Sascha Gerstner. Non solo "Best Time" è un pezzo semplice, solare e immediato nella piena tradizione di veri e propri inni come "I Want Out" e "Future World", ma è anche l'unico che sembra sfruttare efficacemente la possibilità di avere a disposizione due cantanti eccezionali come Kiske e Deris, con le due voci che duettano perfettamente sul bel ritornello (geniale il fatto che sia Deris a "potenziare" la voce di Kiske con gli acuti).
Detto questo, non era affatto scontato che da questa reunion potesse nascere anche un nuovo album ed invece ecco spuntare 4 anni più tardi questo Helloween. Nonostante la grande attesa, in realtà il disco si attesta su livelli qualitativi medi, più o meno alla pari con i lavori precedenti delle Zucche, senza veri e propri guizzi, sia per quanto riguarda i brani scritti da Weikath e Deris, che per "Skyfall", la suite scritta da Kai Hansen che conclude il disco. In particolare ci si aspettava di più a livello di interazione tra le due voci e di profondità delle linee melodiche, con le tre chitarre mai sfruttate appieno. A sorpresa, la canzone più memorabile dell'album non è scritta né dai due chitarristi, né da Andi Deris, ma bensì dall' "imbucato" Sascha Gerstner. Non solo "Best Time" è un pezzo semplice, solare e immediato nella piena tradizione di veri e propri inni come "I Want Out" e "Future World", ma è anche l'unico che sembra sfruttare efficacemente la possibilità di avere a disposizione due cantanti eccezionali come Kiske e Deris, con le due voci che duettano perfettamente sul bel ritornello (geniale il fatto che sia Deris a "potenziare" la voce di Kiske con gli acuti).
Torniamo a parlare di una band alquanto divisiva, i Dragonforce. Come ho già detto in precedenza, ritengo che la band britannica non abbia saputo sfruttare il proprio potenziale, adagiandosi nei comodi territori degli album fatti con lo stampino, ancora di più con l'arrivo nel 2011 del nuovo cantante Marc Hudson, dotato di indubbie doti tecniche e di un'estensione invidiabile, ma anche di un timbro che, personalmente, non ho mai gradito. Detto questo, con l'ultimissimo album Warp Speed Warriors, la band britannica sembra avere trovato una nuova dimensione, abbracciando totalmente il proprio lato più geek e non avendo paura di finire in territori totalmente beceri e tamarri. Ne esce fuori un lavoro indubbiamente di qualità altalenante, ma finalmente con un senso. È altrettanto vero che tracce come "Doomsday Party" e "Space Marine Corps" sono talmente estreme (non in senso di pesantezza, ma di becera tamarraggine) che o le si ama o le si odia. Detto questo l'azzeccata opener "Astro Warrior Anthem" mi ha convinto da subito e ho deciso di inserirla come ultimo brano prima delle inevitabili bonus track.
Bonus Track! Helloween - Lay All Your Love on Me
Bonus Track! Helloween - Lay All Your Love on Me
Non potevano mancare un paio di bonus track. La prima è una cover fenomenale degli Helloween. Che le immortali e immediate melodie pop degli Abba fossero sotto sotto apprezzate da un'ampia schiera di musicisti metal era cosa nota, ma che non avrei mai immaginato che potessero adattarsi così bene al power metal teutonico. Questa cover degli Helloween è semplicemente perfetta nel preservare melodie e struttura dell'originale aggiungendo però chitarre e doppia cassa. Da sottolineare anche la prestazione maiuscola di Andi Deris, che dimostra ancora una volta (se mai ce ne fosse davvero bisogno) la sua grandissima versatilità. Una delle migliori cover metal in assoluto!
Ok, lo ammetto candidamente: questa traccia l'ho inserita esclusivamente per pura provocazione, visto che le Babymetal sono odiate e spernacchiate da una buona fetta del pubblico metal. D'altronde è comprensibile che un sound che mixa musica pesante all'infernale e chiassoso pop delle idol giapponesi con tanto di balletti sul palco possa essere comprensibilmente davvero troppo per chi è cresciuto a pane e Slayer.
In realtà ci sarebbero varie considerazioni da fare su questo progetto, studiato a tavolino per rendere appetibile il mondo delle idol a una fetta di pubblico differente: se è facile capire che le Babymetal abbiano avuto un ottimo successo in Giappone, è però francamente difficile comprendere come in Occidente non siano rimaste una piccola realtà di culto per pochi, ma siano invece riuscite a riempire arene gigantesche come lo stadio di Wembley.
Aldilà di questo, personalmente credo che la loro musica presenti alcuni fattori di interesse. Certo, ammetto di non riuscire ad ascoltare tutto di fila uno dei loro album, così come sia inevitabile lo "skip" quando arrivano tracce che superano qualunque livello di guardia di tamarraggine, ma in alcune occasioni le trovo comunque efficaci. Per esempio su questa "Distortion", dove la contrapposizione tra il mefistofelico coretto virale radiofonico e la doppia cassa a manetta è efficace (il fatto che il brano duri solo 3 minuti, aiuta non poco, comunque).
Detto questo, sarebbe ingiusto non ricordare come vi siano molte band (più o meno valide) dedite al power metal nel Paese del Sol Levante. Segnalo in particolare le Lovebites che, nonostante un'immagine indubbiamente molto costruita, dimostrano doti tecniche e compositive degne di nota.
In realtà ci sarebbero varie considerazioni da fare su questo progetto, studiato a tavolino per rendere appetibile il mondo delle idol a una fetta di pubblico differente: se è facile capire che le Babymetal abbiano avuto un ottimo successo in Giappone, è però francamente difficile comprendere come in Occidente non siano rimaste una piccola realtà di culto per pochi, ma siano invece riuscite a riempire arene gigantesche come lo stadio di Wembley.
Aldilà di questo, personalmente credo che la loro musica presenti alcuni fattori di interesse. Certo, ammetto di non riuscire ad ascoltare tutto di fila uno dei loro album, così come sia inevitabile lo "skip" quando arrivano tracce che superano qualunque livello di guardia di tamarraggine, ma in alcune occasioni le trovo comunque efficaci. Per esempio su questa "Distortion", dove la contrapposizione tra il mefistofelico coretto virale radiofonico e la doppia cassa a manetta è efficace (il fatto che il brano duri solo 3 minuti, aiuta non poco, comunque).
Detto questo, sarebbe ingiusto non ricordare come vi siano molte band (più o meno valide) dedite al power metal nel Paese del Sol Levante. Segnalo in particolare le Lovebites che, nonostante un'immagine indubbiamente molto costruita, dimostrano doti tecniche e compositive degne di nota.
Tutti i dischi (a parte gli Heavens Gate, da anni in attesa di una ristampa) sono disponibili in formato fisico e digitale su tutti i maggiori store online.
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